Recensione di Sina Mazzei pubblicata su “il Lametino” il 7 maggio 2011
“Ali riflesse nel Sole”, una silloge di poesie pubblicata da Lina Latelli Nucifero, che ha dedicato alla cara figlia Alida, prematuramente scomparsa, è divisa in due sezioni, tra individualismo e alterità, in cui un endemico dolore accompagna tutta l’apoteosi dei suoi versi smembrandosi in mille sfaccettature. Alla sua esegetica poesia non si può non accostarsi con rispetto e silenzio interiore. Non flatus vocis ma magniloquenza e metafisica che inchioda in un profondo per nulla effimero e scontato e che, fin dal suo esordio in medias res, si fissa per sempre nell’alveo della nostra essenza. L’ analessi rimette ordine ai ricordi e il lettore si cala immediatamente nel clima del suo dolore, fino a sciogliersi in una sorta di agnizione consolatoria, ch’ è il topos delle opere, dove l’ autrice vaga alla scoperta della verità che svela il mistero a sé e agli altri facendo in modo che il lettore commosso e coinvolto, ritrovi speranza. La tecnica espressiva utilizzata è quella della parola pura e astratta, e il linguaggio è ricco di metafore, capaci di evocare l’assoluto e la realtà, di penetrare oltre il velo delle apparenze per cogliere il suo mistero “noumenico” ovvero la sua entità nascosta attraverso intuizioni mistiche. Il vivere e il sopravvivere guerreggiano fino ai confini dell’umana appartenenza. Di Verlaine, e dei decadentisti in genere, che rappresentano l’espressione più alta di questa tendenza, ha la paradossale dolcezza della sofferenza, in una serie di analogie e simboli che, con il proprio vissuto nella presenza dell’io narrante, offre il suo stesso trasporto remoto. Lina è una poetessa metafisica: il suo linguaggio crea immagini che appaiono come palcoscenico in cui gli attori non costruiscono lo spazio e il tempo ma è la costruzione stessa del non spazio che suggerisce emozioni a cui sembra essergli stato tolto il terreno. Oso definirla “la viandante del dolore” poiché una profonda inquietudine dell’umano sentire si dipana tra i labirinti esistenziali facendosi compendio itinerante negli iperbati della sua poesia, con l’ intento di porre in rilievo emozioni che non possono apparire trascurabili. Il dolore, che man mano scorre, si fa pensato in un dialogo mai interrotto. Tutto è nel magico e solitario vuoto, in uno spazio senza fondo. I versi di Lina, scollati da terra, aleggiano verso l’alto, unico appiglio sospeso, fonte di rivelazioni, che la protegge dal frastuono quotidiano e dal caos dell’attualità che riconosce intorno a sé e ne diventa interprete negli intrecci umanitari per farsi conferma al suo dolore straziante. Lo smarrimento dei suoi ritmi interiori nel reale, dove non c’è l’ascolto consolatorio di quel vuoto provvisorio per decifrarsi, si fa testimonianza naturale di una storia che le appartiene più che mai. La scena della narrazione e il tempo della scena non hanno quantificabilità sommarie ma interminabili, riassunte in un lungo dolore temporale. Dolore cosmico. Spazio e tempo si fondono in un gioco esistenziale perché il vivere in sé non trova spazi e tempi terreni. Presente e passato s’intrecciano in simbiosi virtù ed annullano un futuro assente, che non sembra avere una possibilità di senso se non quello di ricercare nel silenzio i ricordi intrappolati in un passato che non può tornare. E’ il dolore ad indicare il mondo prima della comparsa delle cose dove c’è solo una luce teatrale che dà origine ad un dolore sempre in movimento, visto da angoli diversi. Latomie i suoi versi, che producono emozioni profonde. La luce di Dio ritrova l’autrice e diventa il solo luogo fisico per ricongiungersi a se stessa. Ali riflesse nel sole, dunque, che simboleggiano la vitalità terrena oramai perduta ma che continuano a battere verso altri voli più nobili, “dove i suoni diventano cori”. Pur avendo una struttura, epica, a volte classica, la poesia latelliana ha quella libertà di chi dalla realtà raccoglie immagini e le trattiene perché ricordi di una situazione, in un flusso di coscienza non disordinato ma sapiente nella visibilità del suo dolore sospeso. Gli aggettivi presenti sono difatti chiari, diafani e trasparenti come l’impalpabile inconstistenza della morte. Il bianco diventa il colore biblico di quelli che vengono dalla grande tribolazione. Nel suo bianco si avverte l’assenza, il silenzio che invita all’ascolto, all’immobilità, un volto da contemplare, da trattenere a sé, un colore che controlla i corpi e li conduce verso un altrove in cui è piacevole smarrirsi, in cui l’esplorazione diventa viaggio, emblema di un’assenza, incorporeo; esso definisce la vita e la morte, racchiude la possibilità di custodire melodie e pensieri del passato ancora vivi, che ci riporta a noi stessi, che freme per ciò che ancora contiene: ricordi di luoghi, angoli di una realtà che ancora respira. La natura comunicante diventa lo scenario su cui proiettare i suoi sentimenti sospesi, intesa come vis cosmica che può rispondere in ogni occasione alle richieste degli uomini, vera protagonista che esplora mondi sconosciuti e intatti. Nessun elemento naturale viene trascurato dall’autrice, poiché allentano in lei la tensione tragica creando una specie di intermezzo giocoso. Ma nulla ha diritto di requiem se prima non passa dal suo dolore poiché ogni cosa filtrata possa trarne linfa vitale per risorgere. Nulla trascura di terreno, sfiorato dalla mano della morte perché diventa l’unica ragione per farsene una ragione, quasi che alla morte stessa le venga riconosciuto il suo stesso diritto di esistere poiché agisce anche senza il nostro volere ( Il dolore eterno dell’umano destino che scorre nei secoli).La natura viva è come morta, e la natura morta è viva, e in essa la figlia diventa una vita silente che riempie gli spazi nell’assenza- presenza costante, in una memoria che chiede ancora di essere vissuta. Anche gli oggetti di casa sono elementi pieni di una loro storia, di un tempo passato che li ha accarezzati, di una memoria che li porta a spasso nel suo trasloco mentale, avvolti in silenzio che rispetta ogni cosa, forse troppo! Anche la solitudine ha un volto pallido impigliato nel pallore dell’autunno in cui si manifesta la grazia metafisica del dolore, dove non emergono colori forti, ma puri come qualcosa di vasto, a un tempo vicino e lontano, statico e plastico. Lina lo costruisce a tutto tondo, lo alleva, lo spezza, lo alimenta, lo smembra in tante sfaccettature, lo usa e lo riusa come prolungamento di quel processo di crescita interrotto. Il suo dolore ci appartiene più che mai, mentre si fa strumento di conoscenza e di crescita interiore per tutti, come fonte di quella riflessione che accompagna tutta una vita. Nel suo spleen decadente non c’è autocommiserazione, debolezza psicologica o mancato adeguamento al reale, né tedium vitae leopardiano ma rimanda alla natura sensibile del poeta nel suo complesso, e produce riflessività sulla condizione umana. Simbolista per excellance, la realtà è rivelazione dell’essenza che aspira a risalire alle sorgenti stesse dell’essere: essa cerca le affinità segrete nelle apparenze sensibili, per cogliere idee primordiali. L’autrice adotta la tecnica dell’impressionismo poiché nelle poesie, accanto a dei particolari precisi, c’è un’atmosfera vaga in cui tutte le cose hanno tra di loro un legame di simboli che ci parlano in un misterioso linguaggio associando colori, profumi, suoni che evocano suggestioni e racchiudono le chiavi del significato dell’universo. Ed ecco che il viaggio immaginario verso il cielo diventa un prolungamento della speranza. Lina cerca convalide esterne da parte di altri che hanno sofferto, ha costantemente bisogno di qualcosa per rassicurarsi. L’arrivo della Nuova Era dell’autrice dipende dal riconoscere il nucleo del proprio dolore e il coraggio di affrontarlo apertamente. ma anche di andare al di là e affrontare la ferita originale della morte. L’autrice cerca di prendere in braccio quel bambino cosmico neonato che sta ancora piangendo chiedendo il suo aiuto. Lo chiama attraverso le sue emozioni e lei gli risponde coi suoi versi dove ricrea le tonalità di amore del grembo cosmico in cui risiede ciò si è perso. Questo è il suo obiettivo spirituale. E’ il dolore ossimoro tra ragione e follia, apertura e chiusura, conquista e perdita, un avvicinarsi e un allontanarsi, è un dolore pellegrino che giunge in luogo in cui non si approda mai, l’unica meta che riesce a raggiungere è la terra del nostalgico desiderio e della mancanza. Del Pascoli ritroviamo in lei l’attaccamento ossessivo ai ricordi dolorosi per cui dimenticare sarebbe come tradire e con i trapassati si ha un rapporto molto più intenso che con i vivi… Lina Latelli, docente ordinaria di Italiano e Storia, ha pubblicato diverse opere e più volte è stata premiata con vari riconoscimenti nazionali ed internazionali. Attualmente svolge l’attività di giornalista presso il Quotidiano della Calabria, collabora con riviste regionali e nazionali.
Sina Mazzei
Fonte: il Lametino 7 maggio 2011