Il secondo emigrato feroletano a raccontarci la sua storia è Francesco Gallo in arte INIS, emigrato in Francia ma originario di Jevoli. Oggi INIS è conosciuto ed apprezzato come artista in tutto il mondo ma la sua giovinezza, come lui stesso ci racconta, è stata molto dura. Ascoltiamo la sua storia.
“Mi chiamo Francesco Gallo e sono nato l’ 8 gennaio del 1955 alle cinque del mattino nel piccolo villaggio di Jevoli, frazione di Feroleto Antico. Sono figlio di Luigi Gallo, muratore di professione e di Mascaro Franceschina. I miei genitori sono emigrati in Piemonte, a Bra, in provincia di Cuneo, quando io avevo appena due anni.
Per me è stata una infanzia molto difficile anche perché quando sono arrivato in Piemonte ancora venivamo trattati come dei terroni, la gente aveva molti pregiudizi verso noi meridionali. Ricordo che i genitori dei bambini del luogo non volevano che i loro figli si sedessero accanto a me perché venivo dal sud ed eravamo per molti di loro considerati inferiori. Ed allora mi sono seduto accanto ad un ragazzo con problemi fisici rimasto anche lui dai miei compagni di classe solo ed emarginato come me.
Ricordo che i miei genitori avevano preso in fitto una camera di un appartamento che aveva un bagno sul balcone e senza doccia e che era in comune con gli altri inquilini. All’interno della nostra stanza c’era un letto matrimoniale ed un lettino per me, e ad un lato della stanza un tavolinetto con tre sedie.
La sola cosa che mi confortava era il fatto che alcuni emigrati che giungevano dal meridione per cercare lavoro al nord, vedendomi piccolo mi portavano con loro e mi compravano il gelato al limone oppure mi portavano al cinema con loro. Io praticavo molto l’oratorio e andavo anche in chiesa. Mio padre era un uomo molto chiaro e premuroso e come ogni genitore cercava di darmi il meglio a seconda della possibilità delle sue tasche. Mia madre, per aiutare al fabbisogno della famiglia, lavorava per molte ore al giorno stirando e lavando la biancheria delle famiglie benestanti piemontesi. Ho lasciato la mia terra che avevo appena due anni ma nel mio sangue scorreva quella nostalgia che mi faceva pensare sempre ai nonni. Ogni giorno discutevamo dei problemi della nostra famiglia chiedendo informazioni ai nostri nonni al sud poiché ancora non c’erano i telefoni come oggi, e aspettavamo il ritorno della risposta alle nostre lettere spedite al sud, ansiosi di sapere se c’erano buone o cattive notizie.
Lasciare il mio paese per me è stato qualcosa di molto terribile. Ricordo che il giorno in cui ho lasciato la mia gente si sono radunate accanto a noi alcune donne che ci conoscevamo bene e con le quali c’era un rapporto di stima e di affetto le quali, vestite di nero, si sono radunate accanto noi e piangevano dicendoci di ritornare presto e che loro ci avrebbero aspettato. Come dono ci avevano regalato un cesto pieno di uova fresche da portare con noi, segni di una povertà che ci circondava.
Subito dopo la mia nascita i miei genitori si ammalarono di tifo e per un breve periodo mi trasferirono alle Serre, in contrada Mancini del comune di Serrastretta. Loro volevano ritornare nel sud ma era molto difficile perché si guadagnava appena il necessario per vivere. Finalmente, dopo anni di sacrifici, mio padre era riuscito a comprarsi una “lambretta” che ci permise di migliorare il nostro modo di vivere perché poteva muoversi meglio per andare al lavoro e per sbrigare molte faccende. Ma nel periodo tra il 1955 e il 1965 si viveva ancora male perché ancora c’era molta discriminazione e i piemontesi approfittavano della nostra miseria. Negli anni successivi molti meridionali cominciarono a trasferirsi stabilmente al nord sposandosi con gente del posto e di conseguenza la propria condizione di povertà ma anche i pregiudizi su di noi meridionali andavano lentamente migliorando. Ricordo ancora che le domeniche mio padre mi portava insieme a lui a trascorrere qualche ora con altri meridionali che avevano famiglie numerose con sei o sette figli. Andavamo insieme nei prati vicini, ci sedevamo sull’erba e all’ora di pranzo mangiavamo tutti insieme da un grande ed unico piatto che veniva posto al centro. Era anche bello cosi’, perché ci sentivamo tutti uniti, piu’ forti e quando frequentavamo le lezioni cercavamo di sederci l’uno accanto all’altro per sentirci piu’ sicuri e protetti da eventuali comportamenti razzisti di alcuni ragazzi del nord. Mi rimase molto impresso che i piemontesi spesso, quando a scuola mancava qualcosa, davano sempre la colpa a noi. Spesse volte ci rimanevo molto male da questo loro comportamento e per scaricare la mia rabbia prendevo a casa una forbice e mi recavo nei giardini pubblici tagliando la barba alle caprette o a volte prendevo dalla vasca dei giardini pubblici un pesciolino rosso e lo portavo a casa nascondendolo in una brocca piena d’acqua in cantina all’insaputa dei miei genitori.
Quando nacque mia sorella io avevo otto anni, ma l’anno successivo a causa di alcuni problemi di salute di mia sorella ritornammo al sud. Anche se da una parte ero contento di ritrovare la mia terra e i miei cari nonni , la mia zia e la famiglia dall’altra parte ero un po’ triste nel vedere che al sud niente era cambiato.
I miei genitori con quei pochi risparmi che avevano messo da parte al nord costruirono una casa al centro di Jevoli. Ma subito dopo mio padre dovette emigrare di nuovo al nord per lavorare. Io e mia mamma e mia sorella restammo a Jevoli cercando di tirare avanti con qualche lavoretto. Una volta chiesi a mia madre che avevo il desiderio di avere una capretta e cosi’ lei alla fiera di San Pietro a Nicastro per accontentarmi me la compro’ ed io le diedi il nome di “Marvizza”. Quando torno’ mio padre e vide quella capretto penso’ subito che avere piu’ di una capra sarebbe stato vantaggioso per l’economia della nostra famiglia e cosi’ ne compro’ altre e ben presto la mia divenne la storia del giovane pecoraio con il suo gregge, che pascolava le capre con un accetta attaccato al braccio , un bastone nella mano destra, un ombrello incrociato alle spalle con una cordicella ed un piccolo coltello nella tasca dei pantaloni. Mi piaceva vivere così in libertà, perché ero sempre a contatto con la natura. Il mio problema era pero’ quello di riuscire ad integrarmi con gli altri coetanei perché per loro ero solo uno straniero avendo vissuto i miei primi anni di vita al nord.
Anche il fatto di pascolare le capre veniva da loro giudicato male poiché loro facevano altro; ma malgrado cio’ non mi scoraggiai ed imperterrito andavo avanti immerso nella natura. Ricordo che nei luoghi piu’ umidi, dove scorreva l’acqua nel sottosuolo, si trovava l’argilla ed io mi divertivo a creare delle piccole sculture di argilla oppure mi mettevo a dipingere e questo lo facevo mentre pascolavo le capre.
Ma questo restava ancora un tabu’ perché la famiglia e la gente del posto non comprendevano il valore e l’importanza che avevano per me quelle sculture e quei disegni. Per me era diventato qualcosa di molto importante tantè che decisi di iscrivermi al liceo artistico di Catanzaro. La mattina mi alzavo alle cinque per percorrere ben 5 chilometri a piedi per raggiungere l’autobus a Feroleto Antico che mi avrebbe portato alla stazione ferroviaria; di qui giungevo a Catanzaro e dovevo percorrere altri 5 chilometri a piedi per raggiungere il liceo artistico. E poi dovevo fare la stessa cosa per il viaggio di ritorno sino a Jevoli.
Un giorno, avevo 15 anni, cominciai a pormi l’interrogativa quale futuro potevo sperare di avere in Calabria e non vedendo soluzioni positive decisi di continuare gli studi a Napoli dove conobbi mia moglie. Ma anche qui non vedevo nessuna prospettiva lavorativa, c’era molta disoccupazione in giro e cosi feci un biglietto di treno Napoli-Parigi ripartendo per una nuova avventura. Arrivato alla frontiera di Modane mi ricordai che alcuni miei compaesani si erano stabiliti in Savoia e pensai cosi’ di fermarmi a salutarli. Qui c’era il fratello di mia mamma, Giuseppe Mascaro, il quale mi convinse a cambiare idea dicendomi che in Savoia si viveva bene e che molte cose erano migliori dall’ italia, che qui non c’era discriminazione e che la gente ti apprezzava come persona indipendentemente dal lavoro che svolgevi.
E proprio qui, nella Savoia francese, è maturata la mia idea di costruirmi una famiglia. Dopo il matrimonio ho riversato tutto me stesso in quella che è stata sin da bambino la mia piu’ grande passione: fare l’artista. Nel frattempo, mentre cresceva la mia fama di artista, ho costruito anche la mia casa in questo territorio e negli anni successivi sono nati i miei quattro figli Francesca, Antonella, Melissa e Luigi. Per noi emigrati la famiglia è molto importante perché dà molta stabilità e garantisce un avvenire; aiuta anche ad allontanare un po` di nostalgia perché non ti senti solo ed hai modo di confrontarti meglio con una realtà diversa.
Credo che bisogna essere molto realisti poiché bisogna comprendere che quando si arriva ad una certa età, e la nostra famiglia si è radicata in un nuovo territorio,è difficile realizzare il desiderio che ci portiamo dietro noi emigrati sin dalla nostra giovinezza di ritornare al sud perché i nostri figli sono cresciuti in un territorio diverso dal nostro, e noi non siamo disposti a sacrificare la loro vicinanza e il nostro affetto per ritornare in Calabria.
Da emigrato dico solo che il nostro destino di emigrati era gia’ segnato e quelli che hanno avuto la possibilità di rimanere nella propria terra d’origine si devono considerare, pur tra mille difficoltà, delle persone fortunate poiché possono continuare a trasmettere alle generazioni future quei valori che per noi del sud sono di vitale importanza.”
Francesco Gallo in arte INIS (aprile 2023)